Archive for Maggio 2020

Purgatorio – i personaggi – canti 11 e 12

Maggio 26, 2020

Nell’undicesimo canto troviamo i superbi, che espiano il loro peccato sulla prima cornice pregando e trasportando pesantissimi massi. E’ la mattina dell’11 aprile (o forse del 28 marzo) 1300, il lunedì dell’angelo.

Tutti i superbi recitano una versione leggermente modificata del Padre Nostro, e quando Virgilio domani la strada più breve per la cornice successiva, perché deve salire un vivo, a rispondere è l’anima di Omberto Aldobrandeschi, membro di nobile famiglia toscana.

Non si sa se sia morto in battaglia o in un agguato dei senesi, di cui era nemico, e menziona il padre (Guglielmo Aldobrandesco fu mio padre) forse per presentarsi in modo più umile, o forse per chiarire chi gli ha procurato il potere e l’arroganza.

Omberto non chiede favori o altro, e pare volersi assumere tutto il peso della sua colpa

E qui convien che questo peso porti
per lei, tanto che a dio si soddisfaccia,
poi ch’io non fe’ tra ‘ vivi, qui tra ‘ morti

Vedendo un altro personaggio che si torce per guardarlo Dante, a sua volta chino per implicita confessione dello stesso peccato, riconosce il celebre miniatore Oderisi

l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Paris

Oderisi da Gubbio risponde notando che ora sono più apprezzate le illustrazioni di Franco Bolognese, con una cortesia che se fosse arrivata prima avrebbe risparmiato un po’ più di sofferenza in Purgatorio.

Vengono menzionati Giotto e Cimabue, Cavalcanti e Guinizelli come esempi della massima sic transit gloria mundi, e con l’aggiunta che forse qualcuno, magari Dante?, avrà fama maggiore dell’uno e l’altro Guido.

Dopo le note terzine sull’insignificanza della fama di fronte allo scorrere del tempo (mill’anni, meno che un muover di ciglia), Oderisi parla di un penitente che cammina poco innanzi a lui: ne parlava tutta la Toscana, e ora a pena in Siena sen pispiglia.

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Si tratta di Provenzan Salvani, signore e padrone di Siena, che ha diritto a una riduzione di pena per essersi umiliato chiedendo l’elemosina ai suoi concittadini in piazza del Campo, allo scopo di riscattare un amico prigioniero del re Carlo d’Angiò.

E come lui si condusse a tremar per ogne vena, profetizza in modo oscuro Oderisi, così i tuoi concittadini faranno sì che tu potrai chiosarlo.

Nel dodicesimo canto Dante vede esempi di superbia punita, scolpiti a terra come si può vedere nelle tombe dell’epoca, e sono parecchi. Il primo e più importante, considerato (vv.25-27) è Lucifero, giù dal cielo folgoreggiando scender.

Si passa poi ad esempi tratti dalla mitologia: il gigante Briareo colpito dal fulmine di Giove (vv.28-30) poi Apollo (Timbreo), Pallade e Marte che contemplano orgogliosi la strage di giganti (mirar le membra d’i Giganti sparte, vv. 31-33).

A seguire, esempi biblici e mitologici: Nembrot o Nimrod costruttore della torre di Babele; Niobe, madre troppo orgogliosa dei suoi quattordici figli e per questo punita dagli dei (Apollo e Artemide) con la loro uccisione.

Saul, sconfitto dai Filistei e suicida perché insuperbito del potere concessogli da dio. Aracne, tessitrice tanto arrogante da sfidare una permalosa Atena, che alla fine la trasforma in ragno, costringendola così a filare per tutta la vita.

O folle Aragne, sì vedea io te 
già mezza ragna, trista in su li stracci 
de l’opera che mal per te si fé

Roboamo, re d’Israele dopo Salomone, con i suoi soprusi provoca la rivolta e la divisione del popolo. Poi c’è Erifile uccisa dal figlio Alcmeone; l’empio Sennacherib re d’Assiria, autore del palazzo senza eguali, citato nella Bibbia, ucciso (forse) dai figli.

Appare la testa mozzata del crudele re Ciro II di Persia immersa nel sangue, e la fuga degli Assiri con il corpo di Oloferne, il loro condottiero decapitato da Giuditta. Infine, l’esempio emblematico della superbia punita è dato dalle rovine fumanti di Troia.

Dante si chiede chi potrebbe aver creato queste opere stupende,

Morti li morti e i vivi parean vivi: 
non vide mei di me chi vide il vero, 
quant’io calcai, fin che chinato givi

e conclude la descrizione con un’invettiva sarcastica contro i superbi figliuoli d’Eva, che non abbassano il capo a riflettere sui loro errori, e via col viso altero.

Assorto in questa contemplazione Dante perde un po’ la cognizione del tempo passato e dello spazio percorso, quindi Virgilio lo invita ad atteggiarsi umilmente perché si avvicina l’angelo dell’umiltà che agevola la salita di Dante alla seconda cornice.

 

 

 

 

 

Purgatorio – i personaggi – canti da 7 a 10

Maggio 25, 2020

Nel settimo canto Sordello indica alcuni principi negligenti ospitati nella valletta; con questa dicitura si indicano governanti che, a causa di preoccupazione terrene, non si sono curati abbastanza della loro missione di governo.

La lunga rassegna si apre con l’imperatore Rodolfo I d’Asburgo, che avrebbe potuto risolvere i problemi dell’Italia, poi  Ottocaro II di Boemia, fin da piccolo migliore del suo lussurioso figlio Venceslao II.

Lo spirito dal naso sottile  è Filippo III l’Ardito, padre di Filippo il Bello, morto fuggendo e quindi disonorando la Francia; accanto a lui Enrico I (il Grosso) di Navarra, suocero di Filippo il Belloappoggia la guancia al palmo della mano.

Entrambi soffrono pensando alla vita peccaminosa di Filippo (che morirà nel 1314). Poi Sordello nomina uno spirito dall’aspetto robusto, Pietro III d’Aragona, accanto a un altro dal naso prominente (Carlo I d’Angiò), che cantano all’unisono.

Se a Pietro fosse succeduto il giovinetto che ora siede dietro di lui, l’erede del suo regno sarebbe stato valoroso, il che non si può dire degli eredi attuali, Giacomo re d’Aragona e Federico III re di Sicilia. Ma allora la virtù dei padri non si trasmette ai figli ?

Sordello spiega che questo non accade per volere di dio, così chi vuole avere virtù deve pregare dio di riceverla; il regno di Napoli e la Provenza si dolgono di essere governati da Carlo II, tanto inferiore al padre quanto Carlo I rispetto a Pietro III d’Aragona.

Sordello indica ancora il re d’Inghilterra Enrico III, che siede in disparte e può vantare eredi migliori; ultimo qui il marchese Guglielmo VII del Monferrato, causa della guerra contro Alessandria che ancora provoca danni al Monferrato e al Canavese.

L’ottavo canto inizia con la nota terzina

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio

un richiamo evidente, poi ripreso, agli esuli.

Il primo personaggio nuovo qui è Nino Visconti, che fissa Dante credendo di conoscerlo. Quando il poeta si presenta e gli dice di essere ancor vivo, il penitente è assai stupito e lo prega, una volta tornato sulla Terra, di ricordarlo alle preghiere della figlia Giovanna.

Lo rattrista il fatto che la moglie Beatrice d’Este si sia ormai risposata, (Non credo che la sua madre più m’ami), anche se si pentirà delle sue nuove nozze con Galeazzo Visconti, signore di Milano, per via dell’esilio toccatogli nel 1302.

Nino conclude dicendo che lo stemma dei Visconti Milanesi sarà ornamento minore di quello dei Pisani per la tomba di Beatrice.  Morta nel 1334, Beatrice sarà sepolta nella chiesa di San Francesco grande a Milano, in una tomba con entrambe le insegne.

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L’altro personaggio che qui si incontra è Corrado Malaspina, un potente della Valmagra della cui famiglia Dante dice di conoscere la fama e la cortesia, una casata

che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia.

Il penitente profetizza che entro sette anni Dante confermerà per esperienza la sua opinione, il che equivale a confermare l’esilio in questi territori.

Nel nono canto non incontriamo personaggi nuovi; santa Lucia porta con sé Dante alla porta del Purgatorio mentre il poeta sta dormendo e sogna l’aquila; l’unico incontro, a metà tra il concreto e l’astratto, è l’angelo guardiano.

Nel decimo canto vengono inizialmente menzionati esempi di umiltà (la vergine Maria, il re David, Traiano e la vedova), poi si avvicinano le anime dei superbi, curve sotto il peso di enormi macigni per contrappasso sono costrette a trasportare.

 

Purgatorio: i personaggi (canti 1 – 6)

Maggio 14, 2020

Nel primo canto Virgilio e Dante incontrano Catone; per imperscrutabile volontà di dio un pagano per giunta suicida è custode di questo fondamentale regno, viene premiato il suo amore (viscerale) per la libertà (libero arbitrio…)

Nel secondo canto, dopo l’apparizione dell’angelo nocchiero, tra le anime dei penitenti spicca l’amico musico Casella, che col suo canto attira l’attenzione di molti e il rimprovero di Catone.

Nel terzo canto risalta lo spirito di Manfredi re degli Svevi, ucciso sotto scomunica e ritenuto dai più dannato: infatti i suoi resti vengono fatti portare al di fuori del regno dal vescovo di Cosenza istigato da papa Clemente IV.

Nel quarto canto si sale fino al primo balzo dell’Antipurgatorio, dove il pigro Belacqua aspetta, con calma, il suo momento per entrare.

Nel quinto canto s’incontrano gli spiriti degli uccisi che si pentono tardivamente, tra questi Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei (Siena mi fé, disfecemi Maremma)

Il sesto canto inizia con il paragone del gioco della zara; vengono menzionati alcuni nomi, ma senza che ci sia una vera e propria interazione con i personaggi.

 

Quiv’era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.

Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;

Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia

 

 

 

I lipidi: mappa mentale

Maggio 9, 2020

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Purgatorio ultimo canto

Maggio 8, 2020

Siamo ancora nel Paradiso Terrestre, a mezzogiorno del 13 aprile, o forse 30 marzo, anno 1300. Il Purgatorio termina con la profezia di Beatrice sul DXV e la missione di Dante, poi Matelda conduce Dante e Stazio a bere l’acqua dell’Eunoè.

 

Deus, venerunt gentes, alternando 
or tre or quattro dolce salmodia, 
le donne incominciaro, e lagrimando; 

Si comincia con il canto alternato delle sette donne, mentre Beatrice sospira come Maria ai piedi della croce; poi le donne tacciono e parla Beatrice, che annuncia, citando l’ultima cena, la sua temporanea dipartita, a cui seguirà il ritorno

Modicum, et non videbitis me; 
et iterum, sorelle mie dilette, 
modicum, et vos videbitis me

Poi Beatrice, protagonista dell’azione, fa disporre le sette donne davanti a sé e fa cenno a Dante, Matelda e Stazio di seguirla. Dopo pochi passi rivolge lo sguardo a Dante (li occhi con li occhi mi percosse) e lo invita ad avvicinarsi per potergli parlare.

Sì com’io fui, com’io dovea, seco,
dissemi: Frate, perché non t’attenti
a domandarmi omai venendo meco?

Ovviamente per noi, ma forse non per Beatrice, Dante si sente come davanti a un suo superiore, per cui la risposta gli vien fuori un poco sussurrata:

incominciai: Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono

Beatrice lo invita a liberarsi da paura e vergogna, smettendo di parlare in modo confuso; e aggiunge, il carro che il serpente ha rotto non esiste più, ma il colpevole sarà colpito senza scampo dalla punizione divina.

L’aquila che hai visto lasciare le penne al carro non resterà senza eredi per molto tempo; le stelle tra non molto indicheranno l’arrivo di un D X V (cinquecento diece e cinque) messo di dio. che ucciderà la prostituta e quel gigante che con lei delinque.

La mia narrazione forse non ti piace, è oscura come le profezie di Temi (mito di Deucalione e Pirra dopo il diluvio, Metamorfosi) o della Sfinge, ma presto le Naiadi scioglieranno questo enigma con i fatti, senza provocare danno alcuno.

Tu nota, e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.

E ricòrdale insieme alla descrizione di come l’albero è stato rovinato due volte. Chiunque danneggia o depreda quella pianta, creata da dio per i suoi fini, lo offende in modo grave commettendo un sacrilegio.

Per aver colto i frutti di quella pianta Adamo ha dovuto aspettare per migliaia di anni nel limbo che Cristo lo riscattasse dal peccato originale scendendo agli inferi, e la tua mente delira se non capisce che è così alta e capovolta per una causa precisa.

Un intelletto libero da vaneggiamenti può scorgere da solo il significato dell’albero. Ma subito dopo Beatrice pare rendersi conto che le cose non stanno così per Dante, e aggiunge subito dopo

Ma perch’io veggio te ne lo ‘ntelletto 
fatto di pietra e, impetrato, tinto, 
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, 
che ’l te ne porti dentro a te per quello 
che si reca il bordon di palma cinto

Ovvero, se proprio non ci arrivi, almeno porta con te almeno l’immagine di quello che hai visto, come il pellegrino che lega una foglia di palme intorno al bastone. Insomma, accontentiamoci.

A questo punto Dante si traveste da modestissima persona, chiedendo a Beatrice come mai non riesce (lui) a comprendere le sue (di lei) parole, perché la sua parola vola tanto sovra mia veduta, come mai più ci prova e meno la comprende?

La risposta è facile: hai seguito una scuola troppo scarsa, che ti ha dato una sapienza inefficace; ora vedi la distanza che separa sapienza umana e divina, e che va oltre quella tra la terra e il cielo, il primo mobile (il ciel che più alto festina).

Eppure Dante non ricorda di essersi mai allontanato da Beatrice, a cui dà del voi; e Beatrice gli rammenta, dandogli del tu, che non può ricordare, avendo bevuto in abbondanza l’acqua del Lete; ma proprio questa dimenticanza è il segno certo della

colpa ne la tua voglia altrove attenta.

Ma benignamente la severa Beatrice decide di parlare un linguaggio meno oscuro, o meglio adatto alla vista rude, al rudimentale ingegno del poeta. Intanto è mezzogiorno, e le sette donne che aprono il corteo si fermano come

chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sua vestigge

Siamo in una radura poco illuminata, come al fresco di un fiume di montagna, e proprio due fiumi appaiono a Dante, che li paragona a Tigri ed Eufrate, ma anche a due amici che escono dalla stessa fonte e si allontanano lentamente (pigri).

Dante chiede che fiumi siano; Beatrice gli risponde di chiedere a Matelda, e quest’ultima con tono di scusa risponde a sua volta di aver già dato questa ed altre spiegazioni, e che sicuramente l’acqua di Lete non gliel nascose.

E Beatrice: Forse maggior cura, 
che spesse volte la memoria priva, 
fatt’ha la mente sua ne li occhi oscura

Ma vedi Eunoè che là diriva: 
menalo ad esso, e come tu se’ usa, 
la tramortita sua virtù ravviva

Come anima gentil, che non fa scusa, 
ma fa sua voglia de la voglia altrui 
tosto che è per segno fuor dischiusa

Matelda accompagna Dante al fiume Eunoè, invitando anche Stazio a seguirla. In queste dolci acque Dante trova un rinnovamento completo, come una pianta che rinasce a primavera; ma la cantica finisce e non c’è posto per una descrizione completa:

ma perché piene son tutte le carte 
ordite a questa cantica seconda, 
non mi lascia più ir lo fren de l’arte. 

Io ritornai da la santissima onda 
rifatto sì come piante novelle 
rinnovellate di novella fronda, 

puro e disposto a salire alle stelle.

 

Alberto Savinio a Venezia

Maggio 4, 2020

(Da: Ascolto il tuo cuore, città, Adelphi)

Le calli anche più larghe di Venezia sono ancor esse così strette, che pur senza ombra di volontà da parte mia, anzi con una vergogna da non si dire, le mie mani penzoloni vengono a contatto con le mani delle passanti. Provo a tenerle ferme, ma non giova. Provo a lasciarle libere nel loro movimento a bilancere, ma siamo alle solite. E ogni volta è una scossa, un brivido, un diavoleto che mi corre più per il filo della schiena. Mani fresche e mani calde, mani sudate e mani diacce, mani di burro e mani di avorio, mani morbide e mani dure, mani magiche e mani morte come scaloppe crude, mani che danno la scossa come il cordone della lampada a spina quando la tela isolante è logora e il filo conduttore a nudo, e mani il cui attaccamento non fa più effetto di un ferro da stiro freddo, Quali strane reazioni i mezzi anche più tenui dell’amore esercitano su di me? C’è in questi contatti un che d’illecito, Ho l’impressione di rubare. Provo a mettermi le mani dietro la schiena, come Napoleone, ma non basta. Allora, piano piano, m’infilo i guanti.

Purgatorio – canto ventinovesimo

Maggio 3, 2020

E’ ancora la mattina del 13 aprile, o del 30 marzo, anno 1300; siamo ancora nel paradiso terrestre, qui Dante e Matelda risalgono il fiume. Dopo l’invocazione alle Muse, Dante incontra il carro con la processione.

 

Matelda prosegue nel suo canto:

Cantando come donna innamorata,
continuò col fin di sue parole:
Beati quorum tecta sunt peccata!

E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disiando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,

allor si mosse contra ‘l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.

La giovane è paragonata a una ninfa, creatura mitologica che vive a contatto con la natura; Dante la segue rallentando il passo per adeguarlo al suo, più corto.

Dopo una cinquantina di passi il fiume svolta verso oriente, e poco dopo una luce appare improvvisamente: non è un lampo, perché non cessa subito, anzi, più e più splendeva, e Dante, stupito, si chiede di cosa possa trattarsi.

Si sente nell’aria una dolce melosia, e il poeta rimprovera Eva, che baratta il paradiso per il frutto della conoscenza. Si vede una fiamma, e tocca alle Muse essere invocate, perché la descrizione delle prossime visioni richiederà un notevole aiuto da parte loro:

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
e ‘l dolce suon per canti era già inteso.

O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami

Or convien che Elicona per me versi,
e Uranìe m’aiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi

Da lontano sembrano arrivare sette alberi dorati, ma avvicinandosi si accorge che si tratta invece di sette candelabri, e questo gli dice la vista; l’udito gli manda un coro di Osanna, e la luce di questi oggetti rischiara almeno quanto la luna a notte fonda.

Io mi rivolsi d’ammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con vista carca di stupor non meno

Poichè Virgilio non appare molto illuminante, Dante torna a guardare verso le alte cose, e gli appare un corteo che si muove molto lentamente, più che se non fossero spose novelle. Matelda lo sgrida perchè guarda solo gli oggerri, e non le persone dietro:

Genti vid’io allor, come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci

Dante vede riflesso nel Lete il suo fianco sinistro (la mia sinistra costa), come in uno specchio; avvicinandosi al corteo, gli pare che la luce delle torce rimanga nell’aria, come a formare uno stendardo colorato, pennellando nel cielo i sette colori dell’arcobaleno.

sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

Questi ostendali in dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.

Ovvero, prosegue la descrizione, non si riesce a vedere dove iniziano gli stendardi, e la distanza tra il primo e l’ultimo, cioè tra le file, dev’essere di dieci passi.

Sotto questo bel cielo si vedono avanzare dodici coppie di anziani coronati da gigli; venendo avanti cantano, benedicendo le bellezze di Maria,  i ventiquattro seniori sono seguiti poi da quattro animali coronati da fronde verdi e con penne occhiute:

Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.

Il poeta qui si scusa perchè non ha tempo di completare la descrizione, e rimanda per i dettagli ai libri di Ezechiele e san Giovanni. Ci sono infatti molte altre cose da descrivere, per primo il carro trionfale trainato da un grifone, al centro dei quattro animali.

Il grifone porta il giogo al collo, e le sue ali salgono così in alto da sparire alla vista, partendo dal centro fino a raggiungere gli estremi delle sette liste. Le sue parti da uccello sono di colore dorato, le altre invece di colore bianco e rosso.

Quanto al carro, non solo è più bello di quelli usati per celebrare i trionfi di Scipione o Augusto, ma addirittura il carro del Sole, quello abbattuto da Giove per supplica della Terra, quando Fetonte ne prese la guida, è poca cosa a paragone di questo.

Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;

l’altr’era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa

la danza delle tre donne pare guidata di volta in volta dalla bianca e dalla rossa, che sembra stabilire il tempo della danza con il ritmo del suo canto. Altre quattro donne, vestite di porpora, una delle quali con tre occhi, danzano sul lato sinistro del carro.

Appresso tutto il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.

Uno dei due sembrerebbe seguace di Ippocrate, l’altro invece impugna una spada e intimorisce Dante; dietro di loro altri quattro personaggi, di umile aspetto, e un solitario vecchio, che ha l’aspetto di dormiente ma avanza solenne con la faccia arguta.

Questi sette, come i ventiquattro personaggi visti in precedenza, sono vestiti di bianco, ma le corone intorno al loro capo, invece che di gigli, sono fatte di rose ed altri fiori color vermiglio, che visti da lontano sembrano quasi ardere. Qui tutto si ferma.

E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
parvero aver l’andar più interdetto,

fermandosi ivi con le prime insegne